Con ogni probabilità saranno in molti a pensare che la disabilità sia una condizione di compromissione funzionale causata dalla presenza di una lesione. Ciò ha indotto, per lungo tempo, a inquadrare la condizione di disabilità come un problema avente natura esclusivamente organica ed ha determinato, conseguentemente, le politiche di intervento in materia.
Due sono state le visioni che hanno dominato, nella storia, la prevalente concezione di disabilità: la visione cattolico-religiosa e la visione medico-clinica: la prima ha attestato la disabilità in una cornice pietistico-religiosa, a tratti superstiziosa, volta a considerare la persona che si discostava dalla comune idea di “normalità” come oggetto della collera divina e, pertanto, scatenante eventi avversi per la comunità intera; la seconda, figlia dell’illuminismo e della nascita delle scienze moderne, rinnegando la visione precedente ha postulato la presenza di specifiche matrici organiche nello studio e nell’analisi dei corpi e dei funzionamenti non conformi.
Da qui, l’avvento e la diffusione capillare dell’approccio clinico tendente alla medicalizzazione esasperata degli interventi rivolti al paziente con disabilità (interventi chirurgici, fisioterapia, logopedia, specifici trattamenti ospedalieri, etc.). Tutto ciò ha rappresentato un’indubbia ed indispensabile conquista sul piano terapeutico con eccezionali risultati anche nel versante della ricerca e di specifici dispositivi farmacologici e riabilitativi; ma, parallelamente, poca attenzione è stata prestata alla dimensione sociale ed alla necessità di quelle relazioni che caratterizzano la vita di ogni essere umano e delle quali ciascuna persona non potrebbe fare a meno per realizzare pienamente la propria esistenza.
L’idea che la persona con disabilità fosse un organismo bio-psichico sul quale intervenire per avvicinarlo ad un ideale “normotipo” ha prodotto l’elisione della dimensione relazionale non solo come necessità umana fondamentale, e quindi anche della persona con disabilità, ma anche come obiettivo degli stessi piani riabilitativi posti in essere dalle politiche del comparto sociosanitario. Partendo dall’assunto che la persona con disabilità sia un soggetto difettoso da “normalizzare” verranno approntati interventi a carattere clinico e compensativo i quali non esauriscono lo spettro delle necessità umane.
Se, invece, si iniziasse a considerare la disabilità come parte della varietà umana, e quindi una caratteristica alla stessa stregua di altre, si restituirebbe centralità e piena umanità alla persona che la presenta; inoltre, mutando l’approccio che le sorregge, anche le politiche sociosanitarie assumerebbero impostazione ed organizzazione differenti da quelle odierne che vertono su di un approccio a carattere assistenziale.
Il d. lgs 62/2024 definisce la condizione di disabilità: “una duratura compromissione fisica, mentale, intellettiva, del neurosviluppo o sensoriale che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione nei diversi contesti di vita su base di uguaglianza con gli altri”.
Sulla scorta di quanto sopra la disabilità discende non soltanto da una condizione individuale ma è concretamente prodotta anche dal fatto che la società si organizza e configura spazi e attività presupponendo l’esistenza di un unico “tipo” umano: il “normotipo”.
Ma l’umanità tutta può davvero essere fatta rientrare in un unico “normotipo”?
a cura di Alessandra Strano
Garante Comune di Giarre delle Persone con disabilità
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Nota a margine – l’immagine di copertina è uno dei lavori del vignettista Vauro Senesi de è stata utilizzata perché la si è trovata estremamente esauriente ed in linea con quanto sopra.