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 I Minori a rischio nel sistema scolastico attuale

Raramente la scuola italiana si è occupata di quei bambini e adolescenti, ben 32.000 secondo il rapporto del Ministero del Lavoro delle Politiche Sociali del 2010, che nel nostro paese sono stati “segnalati dall’Autorità giudiziaria” e allontanati dalle famiglie d’origine. L’istruzione pubblica tende, molto spesso, ad ignorare questa complicata e difficile questione o, nel migliore dei casi, delega ad altri la “soluzione” del problema. Allo stato attuale, infatti, sono solamente le strutture e gli istituti assistenziali privati, le case- famiglia in particolare, la cui istituzione è stata regolata dalla Legge del 4 maggio 1983, n. 184 e successivamente dalla Legge 28 marzo 2001, n. 149, ad occuparsi di questa fascia di Minori e delle loro famiglie.

Se si vogliono prospettare delle risposte serie e risolutive è fondamentale il pieno coinvolgimento della scuola che operi in sinergia con le forze sociali e del volontariato. È necessaria, insomma, una nuova idea di istruzione pubblica che si occupi ed affronti con le competenze necessarie il dramma dei “Minori a rischio”. Anche perché, gli istituti assistenziali o le case-famiglia non sono in grado di dare risposte adeguate ai bisogni fondamentali dei Minori. Possono proteggerli, nutrirli, tutelarli dalle malattie attraverso un ambiente igienicamente sano, ma non sono in grado di dare risposte esaustive al bisogno primario di un soggetto in età evolutiva: realizzare quel processo di identificazione personale e di socializzazione che gli permetta di esercitare lo spirito critico e di crescere in modo autonomo. Difficilmente, in un ambiente anonimo, possono realizzarsi rapporti affettivi strutturanti ed identitari. Nella vita dell’istituto, che deve essere necessariamente organizzata e scandita da regole predeterminate, non potrà esserci spazio sufficiente per una educazione alla libera creatività e alla capacità critica, ma sopratutto mancheranno stimoli a coltivare quegli interessi personali, essenziali per una adeguata crescita. Nel rapporto con le persone adulte, che dentro vi operano con ruoli professionali ben definiti, mancherà al ragazzo la reale ed edificante esperienza di un dialogo interpersonale, chiarificatore ed insieme protettivo.

Oltre alle gravi conseguenze sul piano individuale, che da soli meritano grande considerazione, occorre mettere in evidenza i danni sociali che derivano dalla permanenza in istituto. Innanzitutto, il grave rischio di deresponsabilizzare i parenti. L’inserimento in istituto non solo dissolve ogni atteggiamento solidaristico della comunità di appartenenza del Minore, ma avvia quel processo di emarginazione che umilia questi piccoli cittadini che verranno, ben presto, abbandonati e dimenticati. Nemmeno il volontariato sembra in grado di uscire da una logica di beneficenza né di incidere seriamente nei processi di emarginazione che si compiono in istituto. Senza dimenticare che il criterio del “ricovero” comporta un continuo aumento delle spese per gli Enti locali e per lo Stato.

Come uscire allora da questo sistema istituzionalizzante? L’auspicio è che si attivino degli strumenti adeguati, primo fra tutti l’“ascolto” dei Minori e le loro famiglie. Chiudere gli istituti e lasciare i bambini in balia di se stessi, in mezzo alle strade delle nostre città, non si configura come una soluzione ottimale. È necessario monitorare la reale entità del fenomeno nelle sue diverse caratterizzazioni e progettare dei percorsi che prevedano il rispetto dei diritti del Minore: dalla predisposizione di reti di aiuto, al sostegno economico alla famiglia di origine, alle varie strutture di day care. Nel contempo, vanno rafforzate le soluzioni, se necessarie, di un allontanamento temporaneo del Minore dal proprio contesto, se questo si dovesse rivelare pericoloso: affidamento diurno e temporaneo ad una famiglia o ad una comunità di tipo familiare.

Ma la vera risposta all’alternativa all’istituto sta interamente nella piena integrazione scolastica e sociale, nella prospettiva pedagogica di un sistema formativo integrato, che superi le “ghettizzazioni” dell’istituto. La scuola pubblica deve essere in grado di attuare dei moduli educativi “flessibili”, “creando” una reale continuità fra i diversi ordini di scuola attraverso alcune cerniere metodologiche comuni: il modo di rapportarsi col territorio, le forme di partecipazione-gestione, le dinamiche di socializzazione (le classi “aperte”), i moduli di programmazione, le aree disciplinari, e realizzando una “coerenza” educativa con l’ambiente esterno attraverso la “complementarietà” e l’“interdipendenza” delle risorse, per garantire alla comunità servizi e beni educativi e culturali in forma permanente tutto l’anno.

Giusi Lamberti

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