Il suo nome è Speranza. Un nome di fantasia, scelto per proteggere ciò che le resta di una dignità rubata. Ma la sua storia è vera. Dolorosamente vera.
Ha 54 anni, è vedova, ha un figlio di 23 anni disoccupato. È una lavoratrice diversamenteabile, affetta da una patologia oncologica che richiederebbe cure continue e integratori che oggi non può più permettersi.
Lavora per la Fondazione O.D.A. – Opera Diocesana Assistenza, un ente ecclesiastico che dovrebbe occuparsi dei più fragili. Ma da mesi non riceve lo stipendio.
Lo sfratto per morosità le è stato notificato mentre era ricoverata. Non aveva i mezzi per rivolgersi a un avvocato. Non ha potuto difendersi. L’11 luglio sarà costretta a lasciare la casa in cui vive in affitto.
Non ha parenti, non ha una casa alternativa, non ha un posto dove andare. Non ha nemmeno un luogo dove custodire i suoi mobili, i pochi ricordi rimasti di una vita passata insieme a un marito che non c’è più.
Speranza ha tentato il suicidio. È viva, ma devastata nel corpo e nello spirito. Ha chiesto aiuto, ha bussato a molte porte. Nessuno ha mosso un dito concreto.
Non l’ente che la impiega. Non le istituzioni che finanziano. Non chi dovrebbe vigilare. Speranza non chiede pietà. Chiede giustizia. Chiede rispetto. Chiede le sue retribuzioni. Chiede diritti, non elemosina.
Questa non è una storia di fantasia. È una storia vera. Sta accadendo oggi, a Catania, in Italia, nel 2025. Si chiama Speranza. Ma la speranza la sta perdendo davvero.
Si è ancora in tempo per salvarla. Lo siamo tutti, se non restiamo in silenzio.