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Amy Lyon: la guerra contro i francesi

Amy Lyon: la guerra contro i francesi

I comandanti delle piazzeforti capitolarono uno dopo l’altro, le truppe borboniche ripiegavano in disordine

 

L’11 ottobre 1798, il generale Jean Antoine Étienne Vachier detto Championnet entrò a Roma. Dopo aver servito, dall’età di vent’anni, nell’esercito spagnolo ed aver partecipato all’assedio di Gibilterra (dal 1779 al 1783), era divenuto il comandante in capo in Italia delle truppe francesi. Apprendendo la notizia, la regina Maria Carolina pensò che fosse giunto il momento di sferrare l’offensiva contro la Francia. Una forte amicizia la univa ormai all’Inghilterra, e la Russia e la Turchia le promettevano il loro appoggio. Bonaparte, privato della flotta, era bloccato in Egitto. Il Direttorio, indebolito da dissensi interni, sembrava perdere la fiducia del paese. Il momento appariva propizio. Se si voleva impedire che le forze francesi avanzassero fin sotto le mura di Napoli, era ora di reagire. Ma la sovrana non immaginava che questa decisione, presa in fretta e senza consultarsi con nessuno, avrebbe condotto il suo Regno al disastro.

Maria Carolina, come sempre, riuscì a convincere il marito – “privo di coerenza e sempre in bilico tra il tradizionalismo del padre e l’antiformalismo lazzaronesco” –, a passare all’attacco secondo un piano elaborato dal generale austriaco Karl Mack, fatto venire apposta dall’Austria ai primi di ottobre. Si trattava di marciare su Roma per scacciarvi i francesi occupanti, e andare oltre, verso il Nord, per congiungersi, magari, con le forze austriache che avrebbero dovuto, in base ai piani della seconda coalizione, scendere nella pianura padana. A dire il vero re Ferdinando non voleva affatto muoversi finché l’Austria non fosse davvero intervenuta e scrisse a Vienna in questi termini, ma quando giunse la risposta (che era negativa, perché l’imperatore affermava che bisognava aspettare il comandante Alexander Vasilyevich Suvorov ed i Russi), sir Acton, approfittando dell’assenza del re, aprì la lettera, fece scomparire l’inchiostro del testo salvo la firma imperiale, e fece scrivere che l’Austria sarebbe entrata in campagna non appena Ferdinando avesse varcato il confine romano. Poi risigillò la lettera, che fu portata al sovrano. Re Ferdinando, ingannato, ritenendo che l’Austria sarebbe scesa in campo con lui, il 22 novembre 1798, mise in moto le truppe napoletane.

Tutti alla corte di Napoli si fregavano le mani, ritenendo l’impresa facilissima; tutti avevano la massima fiducia nell’esercito borbonico e nel suo capo, il generalissimo Mack, scelto personalmente dalla regina. Si mobilitò anche Nelson: imbarcò 4000 uomini di fanteria e una parte della cavalleria e li portò a Livorno, con l’intendo di cogliere il nemico alle spalle. Compiuta la missione, ritornò a Napoli giusto in tempo per apprendere la notizia che Mack era entrato a Roma senza colpo ferire. Il 29 novembre Ferdinando si installò a Palazzo Farnese senza cercare di capire perché le truppe napoletane fossero penetrate così facilmente nella Città Eterna, né per quale ragione Championnet avesse lasciato una sola guarnigione a Castel Sant’Angelo in difesa della città. In realtà, il generale francese aveva giudicato più saggio ritirarsi nei dintorni per ripristinare le forze in tutta tranquillità. Ferdinando lo avrebbe capito troppo tardi. Il 7 dicembre Championnet riprese l’offensiva. In poche ore, 15.000 napoletani cedettero di fronte a 3000 francesi. La rotta era totale.

Rinvigorito dal successo, il generale francese non si limitò a riconquistare Roma e varcò i confini del Regno di Napoli. Nulla resistette alla sua avanzata. I comandanti delle piazzeforti capitolarono uno dopo l’altro, le truppe regolari o quel che ne restava ripiegarono in disordine. L’esercito borbonico, comandato in buona parte da ufficiali stranieri, non aveva dato una grande prova di compattezza. Ma le responsabilità si potevano dividere equamente tra questi ultimi e gli ufficiali traditori, i quali, divenuti di simpatie giacobine, in seguito al trasbordo ideologico subito frequentando le logge massoniche, preferivano la patria “ideologica” a quella dei propri padri. Costoro erano giovani ufficiali inferiori, sottufficiali, uomini formatisi nelle università del regno ed impregnati di spirito illuministico che non vedevano l’ora di realizzare l’utopia rivoluzionaria. Il terrore si impadronì di tutto il Regno.

Maria Carolina particolarmente impaurita, confidava a Emily: «Dio solo sa cosa ci riserva l’avvenire! Sono profondamente afflitta per tutto ciò, e ogni giorno mi attendo qualcosa di più terribile. Mack è disperato, e ne ha motivo». La regina fece l’ultimo tentativo per ottenere qualche soccorso da Vienna, ma fu vano. L’imperatore rispose che il popolo austriaco voleva un po’ di riposo. Il furore e la disperazione della regina si tradussero immancabilmente in invettive contro la sua famiglia, che accusava di «allearsi vigliaccamente contro la figlia e i nipoti della grande Maria Teresa». Ormai i suoi unici mezzi di difesa si erano ridotte «alle lacrime e alla preghiera». Mille uomini fuori combattimento, trenta cannoni, nove bandiere e la maggior parte dei cavalli e degli approvvigionamenti nelle mani del nemico: questo il bilancio di una campagna che non era durata più di diciassette giorni.

La disastrosa guerra contro i francesi ed i tumulti davanti al Palazzo reale inducevano gli abitanti di Napoli a ritenere imminente una resa dei conti all’interno del governo napoletano. Veniva attaccata soprattutto la regina. Si criticavano principalmente la sua condotta e l’influenza nefasta che aveva sul marito. La situazione era divenuta particolarmente critica anche per coloro che, venuti dall’estero, avevano raggiunto le più alte cariche pubbliche. A costoro il popolo attribuiva la responsabilità di tutti i mali del regno. Il primo ministro sir Acton sentiva avvicinarsi la minaccia di una tragica fine e, per fugare il pericolo che direttamente lo vedeva esposto, convinse la Corte «ad accelerare la partenza del Sovrano, onde con l’allontanarsi da Napoli serbare quella preponderanza nel consigliare e nel disporre, che forse prestamente a perdersi sarebbe andata, se prolungata si fosse la dimora nella capitale». In realtà Ferdinando, voleva far partire la sua famiglia per restare solo nella capitale e tentare di risolvere la delicata situazione del regno con un nuovo trattato, nella ragionevole certezza che il popolo, sicuramente antifrancese e radicalmente antigiacobino, avrebbe positivamente condizionato le trattative con il nemico.

Alle pressioni dell’Acton si aggiunsero quelle di Horatio Nelson, il rappresentante più eminente, in quel momento, dell’alleata Inghilterra. Nelson, appena giunto a Napoli, ebbe un colloquio con l’ambasciatore Hamilton (nel dipinto) ed entrambi convennero di far partire il re immediatamente per Palermo. La scelta della Sicilia non era casuale: già dai primi anni Novanta, in seguito ai tragici avvenimenti di Parigi, il governo napoletano aveva potenziato le difese dell’isola, aumentandone armamento per trasformarla in un sito da cui organizzare l’estrema difesa del regno in caso di aggressione francese. L’azione di Nelson, tuttavia, in quei momenti aveva intenti meno nobili della difesa del regno e meno generosi dell’incolumità regia. L’allontanamento del re dalla capitale permetteva all’ammiraglio, già padrone del mare, di dettare a suo piacere le linee fondamentali della politica napoletana, ordinando al re quello che più conveniva agli interessi inglesi.

Non a caso, per convincere Ferdinando a partire, Nelson esagerò i falsi rapporti delle spie. Influenzò l’animo della regina Maria Carolina, già provata dalla tragica fine della sorella Maria Antonietta. Scrisse al suo ammiraglio, lord St. Vincent – senza fornirne le prove –, di aver scoperto tradimenti che mettevano in pericolo la sicurezza personale dei sovrani. Nelson agiva per conto del suo governo il quale, avendo stipulato il 1° dicembre di quel 1798 una lega offensiva e difensiva con il governo napoletano, voleva trarre dall’alleanza il massimo profitto. I porti delle Due Sicilie divennero depositi inglesi; in essi la flotta poté agevolmente svernare, approvvigionarsi, spiare e regolare le azioni di sorpresa sul nemico in ogni angolo del Mediterraneo. L’idea di proteggere la famiglia reale ingenerava negli inglesi una sorta di autorizzazione a disporre del regno a proprio piacimento.

Il prezzo che le Due Sicilie pagarono, per il non certamente disinteressato aiuto inglese, fu molto alto. Nelson, obiettivamente, trionfando ad Abukir, aveva stabilito l’egemonia inglese sui mari.

(11. – “Amy Lyon: una lady alla Corte di Napoli” 2013)

Roberta Mangano

Salvatore Musumeci

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