Storie di racket: “Per non svendere la mia vita ho denunciato il clan” -
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Storie di racket: “Per non svendere la mia vita ho denunciato il clan”

Storie di racket: “Per non svendere la mia vita ho denunciato il clan”

La drammatica intervista a un testimone di giustizia che si è opposto ai clan di Cosa nostra catanese

Telefonate, messaggi, sms. Verifiche incrociate per una sorta di reciproco “accreditamento”. I due appuntamenti che precedono l’intervista vera e propria si svolgono in un edificio “protetto”, in pieno centro, ma al sicuro da sguardi e orecchie indiscrete. Lunghe chiacchierate che servono per conoscersi, per aggiornarsi sulle strategie dei clan, per confrontare informazioni e impressione su “colletti bianchi” e impresentabili.

Il testimone con il cellulare rassicura di tanto in tanto i carabinieri. Dalla prudenza si passa alla fiducia, reciproca, dalla curiosità professionale alla partecipazione personale. Il testimone di giustizia non è un eroe silenzioso, ma semplicemente un predicatore di dignità e coraggio. Perché la propria vita non si svende all’”amico buono”.

Daniele Lo Porto

Assuefarsi all’omertà, convincersi che accogliere le richieste dell’ “amico buono” sia la cosa giusta da fare per: salvarsi, andare avanti, proteggersi, produrre senza rischio, assicurandosi così un futuro lavorativo tranquillo e privo di intoppi spiacevoli. È così che in molti scelgono la strada più facile, quella che dà via libera all’estorsione, con il silenzio, accettando compromessi che tacitamente annientano la libertà e la dignità, se non addirittura la vita stessa dell’uomo. Ma c’è chi sceglie di agire con coraggio, credendo fortemente che il futuro sia delineato dalla trasparenza e dalla legalità.

Un ruolo importante in termini di sostegno e fiducia, viene svolto dalle associazioni antiracket presenti sul territorio. “Le loro vite sono nelle nostre mani – dichiara Rosario Cunsolo, presidente dell’associazione antiracket, Libera Impresanon sempre, neanche con noi, decidono di affidarsi totalmente, evitando di dire quello che dovrebbero, spesso accade per timore, vergogna e per l’omertà che condiziona l’intera famiglia.  Ma alla fine riescono ad aprirsi completamente, e per noi è un importante traguardo. Il nostro non è un intervento solo di natura tecnico ma anche di sostegno personale”.

I suoi sono occhi che parlano, che con orgoglio brillano – nonostante abbiano visto scene drammatiche e infernali: è lo sguardo di un uomo: un imprenditore catanese che decide di denunciare, di dire no alla mafia, a caro prezzo. Siamo ben lontani dal concetto di estorsione al quale siamo abituati: incendi, minacce telefoniche, “tasse” mensili da garantire a chi, senza alcun invito, andava a trovare la propria vittima. Un fenomeno più subdolo che lascia le classiche lettere contenti frasi agghiaccianti per intraprendere un altro percorso: quello imprenditoriale.

Cosa nostra catanese ha un’abilità imprenditoriale, che trova pochi uguali in Sicilia. I clan più importanti, hanno sempre avuto attività  economiche “legali”  parallele, che hanno ottimamente gestito, con le buone e spesso con le cattive, ma che hanno condotto con capacità per così dire manageriali, egemonizzato interi settori del mercato, come quello dei trasporti, dei lavori pubblici, del mercato ittico, ed altro ancora” ci  dichiara l’imprenditore,  del quale per ovvi motivi omettiamo qualsiasi indicazione,  che per anni ha subito,  a seguito dei suoi no e delle sue continue denunce, insulti, ingiurie quotidiane, intimidazioni, minacce armate e gravissimi danni fisici. Più volte è stato picchiato, addirittura un braccio rotto veniva refertato con pochi giorni di prognosi, ma nemmeno questo è servito ha piegarlo.

– Cosa volevano da lei? Il classico “pizzo”?

«A loro interessa il totale controllo dell’economia locale! La loro forza sta proprio in questo: penetrare il tessuto economico dall’interno. Da decenni infiltrano i loro uomini nella nostra economia, anche in ruoli chiave, ne dispongono di moltissimi, non solo di quelli che fanno il lavoro sporco, ma di professionisti, commercialisti, tecnici, avvocati, ingegneri e politici. Organici all’organizzazione criminale, ma dal volto impeccabile. Molto spesso (anche nel mio caso) avevo dipendenti, che riferivano ogni mia abitudine, ogni spostamento e soprattutto ciò che dicevo e con chi avevo rapporti. Era facile colpirmi: loro sapevano tutto di me ed erano organizzati, io ero all’oscuro di questo diabolico piano, ed ero solo» .

Il suo tono è rabbioso, ma orgoglioso dei suoi no, della forza che ha sfidato coloro che si credono immortali, invincibili, uomini che – solo perché agiscono in branco – impongono una forza fisica per portare avanti il pensiero assoluto di supremazia in una Sicilia che troppo spesso sceglie di non denunciare, di accogliere nelle proprie attività uomini che invadono e si appropriano del risultato ottenuto attraverso sacrifici e sogni altrui, sogni che in molti vedono svanire, cedere a chi – senza scrupoli – ambisce solo al potere, all’onore, a quell’eternità in cui credono e per la quale combattono senza regole.

– Il clan come è riuscito a insinuarsi nelle sue aziende?

«Come le dicevo, non sono sfuggito alle attenzioni del clan locale. Dopo i miei rifiuti categorici alle loro classiche richieste di “messa a posto”, hanno cessato di cercarmi; è iniziato un periodo di silenzio che, al contrario di ciò che si può pensare è il più pericoloso. Vuol dire che si stanno organizzando per trovare, come dicono loro, la “scarpa giusta per il piede giusto”. E così è stato.
Tra i miei dipendenti, persone che fino a quel momento si erano dimostrate al di sopra di ogni sospetto – trovarono i loro informatori. Alcuni li relazionavano su tutte le mie attività, aziendali, familiari e sui miei spostamenti, persino quelli legati alla sfera personale, lontano dagli orari lavorativi. Stessa cosa fecero con alcuni fornitori, con uno in particolare, che lo si può raffigurare come il vero lupo travestito da agnello. Nel giro di pochi mesi mi trovai totalmente accerchiato, senza che me ne fossi reso conto. Pagai molto cara la mia mal posta fiducia» .

– Quando si è reso conto che non era più lei a guidare le sue aziende?

«Sostanzialmente, come ogni imprenditore, ero molto impegnato nella gestione e nello sviluppo delle mie attività. Tuttavia notai degli atteggiamenti strani, assunti da alcuni dipendenti che, in quel momento rappresentavano i miei punti di riferimento all’interno dell’azienda ed erano anche i più vicini a me sul piano personale. Era come se volessero mettermi in guardia, ma non trovavano il coraggio per dirmelo, perché anche loro, appresi successivamente, erano stati gravemente minacciati.
In definitiva, approfittando di un mio allontanamento, per un viaggio di lavoro, presero possesso di tutta la documentazione aziendale: schede fornitori, estratti conto bancari, contratti, commesse e persino della mia agenda personale. Al mio ritorno il piano era ormai compiuto. Ero io quello estraniato, estraneo nella mia stessa attività» .

– Come ha risposto ai consigli del solito “amico buono”?

«Questo avvenne in epoca precedente. Di fatto io “l’amico buono”, quello a cui fa riferimento lei, non l’ho mai cercato, perché conoscevo già il loro modo di operare e sapevo quando era pericoloso mettersi a dialogare con loro. Purtroppo però, era già dentro casa mia (senza che io me ne rendessi conto) e non avevo più modo di poterlo contrastare. Veda, il così detto “amico buono”, è sempre una persona che si è precedentemente avvicinato alla vittima (in accordo con la famiglia mafiosa) e che ha conquistato la fiducia di quest’ultimo, con un comportamento sempre sereno, conciliante e rassicurante. Il punto è proprio questo. La vittima è convinta che sta dalla sua parte, mentre nei fatti, l’“amico buono” è sempre il peggior nemico, che gioca con l’altra squadra e che non vede l’ora di dimostrare il suo valore (criminale) al suo clan» .

Diretto, senza giri di parole, esprime il suo disappunto, il suo astio e il dolore di chi sente sottratta una parte di sé: l’intimità di una vita lontana da occhi indiscreti, crudeli, senza alcuno scrupolo, lo sguardo di uomini che non si fermano nemmeno dinanzi all’innocenza dei bambini, né dinanzi alla fragilità delle loro vittime, che per combattere vedono frantumare le loro certezze. Quel no, urlato con orgoglio, consegna a loro ogni bene materiale, è vero, ma fortifica la lotta contro chi crede di tenere il potere assoluto. Si sceglie, consapevolmente di denunciare, di intraprendere la strada che loro ostacolano con ogni forma di violenza. Perché l’alternativa esiste, pur dura e travagliata, esiste. Ed è quella che in molti scelgono per non creare ulteriori ponti verso quella meta che li renderebbe invincibili.

– Perché ha scelto di denunciare e quanto è importante farlo?

«Semplice: perché non c’è altro modo. Non ho mai avuto dubbi in tal senso, non esiste altro modo per liberarsi dall’abbraccio mortale della piovra. La nostra realtà, sotto questo aspetto, ritengo rappresenti un modello (negativo) di studio. Viviamo in una città che per anni è stata abituata a convivere con la cosiddetta mafia aristocratica, che frequentava i ristoranti, i club e i salotti buoni di Catania. In alcuni casi addirittura, era un vanto poter annoverare tra le proprie amicizie “un Padrino”, pronto a risolvere problemi e controversie di ogni genere. In cambio però, di un prezzo così alto da pagare, da far perdere ogni dignità a coloro i quali avevano pensato di poter intraprendere tali amicizie. E cosa ancor più grave, hanno creato quella “zona grigia” che a tutt’oggi rappresenta il vero cancro della città. Alcuni operatori economici a Catania, ancor’oggi, e anche tra i miei colleghi, sono convinti che la mafia è costituita da “uomini d’onore”, che rispettano delle regole, che non toccano donne e bambini, che ti difendono dalle rapine e dai furti e che spesso rappresentano una marcia in più per battere la concorrenza. Nulla di più falso! Loro hanno una sola regola e un solo dio: il denaro. E per quello sono disposti a qualsiasi nefandezza.

Il motivo che mi spinge a fare questa conversazione con lei è proprio questo. Oggi non siamo più soli, durante questa mia amara esperienza ho imparato a conoscere, forze dell’ordine preparatissime e una Procura della Repubblica che lavora e che non fa sconti ai così detti poteri forti. Posso testimoniare che, la Procura di Catania, prima sotto la guida del dottore Salvi ed oggi sotto quella del dottore  Zuccaro, è assolutamente affidabile, ed è un porto sicuro per chi vuole intraprendere il cammino giusto, quello della denuncia e del non soccombere sotto il potere mafioso. Voglio dire una cosa che mi sta particolarmente a cuore, non ho alcun interesse verso coloro i quali mi additano, chiamandomi sbirro o con epiteti che non posso qui riportare, voglio dire loro:  liberatevi! Io ho provato la protezione e il sostegno, quello giusto, quello del Nucleo operativo dei Carabinieri, a loro devo tanto, non mi hanno mai fatto sentire debole o indifeso. E in cambio non hanno voluto niente, anzi, quando ci ritroviamo assieme (spesso) non mi lasciano neanche pagare il caffè» .

Il coraggio, in questo caso, ha il volto di un uomo che racchiude la passione per la vita, il dovere di garantire ai propri figli un futuro migliore: con le azioni, con l’esempio, con la grinta di chi lascia agli altri il ruolo delle facili e sterili lamentele, per combattere in prima linea, in quella trincea chiamata mafia, estorsione, e urlare senza timore che occorre difenderli i propri diritti e non solo sul web o nei vari bla bla bla di cui ne è pieno il mondo. Nella vita di tutti giorni, quando bussano alla tua porta e con violenza decidono di buttarti fuori di casa. La tua. E allora quel no, ripetuto, anche quando l’odore del sangue – il tuo – è forte e fastidioso, bisogna corazzarlo di forti motivazioni, e l’dea di un futuro libero lontano dal cancro della società, credo sia l’urlo più forte.

Katia Maugeri

Fine prima parte – nei prossimi giorni la seconda parte dell’intervista.

fonte sito partner Siciliajournal.it

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