Amy Lyon, una relazione tra intrighi e passioni

 

Erano trascorsi quasi cinque anni dal loro incontro e da allora non si erano più visti, ma Nelson e lady Hamilton avevano mantenuto rapporti epistolari, da buoni amici, nei quali si percepiscono allusioni a sentimenti inconfessati: «Non trovo le parole per dirvi ciò che provo sapendovi così vicino», «Vi affido la missiva che ho appena ricevuto dalla regina: imprimetevi le vostre labbra»., «Mia cara lady Hamilton, ho baciato la lettera della regina», rispondeva Nelson (sul retro della missiva, conservata al British Museum, si legge un’annotazione di Emma: «Ho ricevuto questa lettera dopo aver spedito quella della regina che conteneva l’ordine di accogliere i nostri vascelli nei porti; la regina aveva deciso di muoversi in direzione contraria all’opinione del re che, in quel momento, non voleva rompere con la Francia. Senza un suo ordine, la flotta sarebbe stata obbligata a rientrare a Gibilterra per rifornirsi, e la battaglia del Nilo non avrebbe avuto luogo, perché la flotta francese avrebbe avuto il tempo di rientrare a Tolone».

Intanto Nelson – da poco cavaliere dell’Ordine del Bagno – inviava a Napoli un suo ufficiale, il capitano Thomas Troubridge, per chiedere ciò che sembrava impossibile da ottenere a causa dell’impegno di neutralità sottoscritto dal governo napoletano con i francesi: il permesso che le sue navi, a corto di viveri, gettassero l’ancora in un porto siciliano, a Siracusa. Con i francesi a Roma, una minaccia costante ai confini borbonici, era certamente un rischio accedere alla richiesta del contrammiraglio. Ma lady Hamilton non ebbe problemi con la regina, che, con l’aiuto di Acton, riuscì a superare le titubanze del re. Fu così che Nelson ebbe la possibilità di proseguire senza problemi la sua caccia, conclusa a poche miglia da Alessandria, nella baia di Abukir, dove la flotta francese fu sorpresa e annientata. Era il primo agosto del 1798. L’annuncio della vittoria di Abukir, giunta a Napoli il 3 settembre, ebbe un effetto dirompente. Le manifestazioni di gioia alla corte ed alla residenza dell’ambasciatore uguagliarono in intensità ed emozione, se addirittura non superarono, quelle di Londra.

Per comprenderne il clima, basta scorrere la lettera che Emily spedì – 3 settembre 1798 – subito a Nelson: «Mio caro, caro sir, come cominciare? Che dirvi? Mi è impossibile scrivere, poiché, da lunedì scorso, vivo un delirio di gioia, e vi assicuro che per l’agitazione e la felicità ho avuto la febbre. (…) Quando ho appreso la lieta notizia sono svenuta; sono caduta sul fianco e mi sono ferita, ma ora sono guarita. Avrei ritenuto una gloria morire in una simile circostanza. Ma no, non voglio morire prima di aver visto e abbracciato il vincitore del Nilo. (…) Stiamo preparando le vostre stanze in vista del vostro arrivo. Spero che non ci vorrà molto, perché sir William e io siamo tanto impazienti di abbracciarvi. (…) Come posso descrivervi la gioia di Maria Carolina? È impossibile. È svenuta, ha abbracciato suo marito e i figli, è corsa in giro per la stanza, ha urlato, abbracciato tutte le persone del suo entourage. Maria Carolina è vestita alla Nelson: porta delle ancore come orecchini, e sui bottoni ha fatto incidere il Nilo e Nelson. Lei e suo marito sono completamente “innelsoniti”. (…) Napoli è in festa! (…) Nemmeno uno dei cani francesi osa mostrare la faccia. Io cammino a testa alta, fiera per avere un giorno visto la luce nella stessa patria di Nelson. (…)».

L’entusiasmo della regina e della sua amica era tale da indurre chi aveva assistito alla loro eccitazione a sottolineare che mai erano apparse così euforiche. Sembrava che avessero del tutto dimenticata la recente sentenza dell’Alta Corte che aveva dato la libertà a molti detenuti politici, alcuni dei quali compromessi nella congiura fallita quattro anni prima. Per entrambe quella sentenza era stata un affronto e l’ambasciatrice l’aveva commentata con durezza, sostenendo in una lettera che tutti i giacobini dichiarati innocenti «Avrebbero meritato l’impiccagione molto tempo fa».

Elettrizzate dall’impresa di Abukir, si misero subito all’opera per organizzare i festeggiamenti in onore di Nelson, il quale aveva fatto sapere che sarebbe giunto a Napoli con buona parte della squadra navale. Con gli inglesi padroni del Mediterraneo, non solo si allontanava il timore di un blitz francese contro le Due Sicilie ma si sarebbero placati i bollori dei liberali napoletani, umiliati dalla cocente sconfitta napoleonica. Questo era il convincimento delle due donne mentre a corte si impartivano frenetiche disposizioni per mobilitare le masse popolari intorno all’eroe vittorioso, già definito salvatore della patria.

Il 22 settembre, il vascello Vanguardia, sul quale sventolava l’insegna di Nelson, gettò l’ancora nella baia del Vesuvio. Ad accoglierlo c’erano centinaia di imbarcazioni, zeppe di lazzari e illeggiadrite da festoni di fiori. Mentre una banda diffondeva sul mare le note dell’inno nazionale britannico, la prima barca ad accostarsi alla fiancata del vascello fu quella degli Hamilton, salutata da una salva di cannonate. Emily era già pronta a solcare la tolda della nave ammiraglia. Appena scesa prima si fermò in estasi, a qualche metro di distanza, davanti al suo eroe; poi, tra lacrime ed esclamazioni di gioia, si lanciò verso di lui abbracciandolo calorosamente. Furono attimi di imbarazzo per il contrammiraglio, sorpreso dalla teatralità della scena e, soprattutto, dall’irruenza dell’ambasciatrice.

Gracile dalla nascita, Nelson aveva subito gravi menomazioni negli ultimi anni, dopo la sua prima missione napoletana: a Calvi, in Corsica, aveva perduto un occhio, da Santa Cruz di Tenerife era tornato senza un braccio e ad Abukir era stato ferito alla fronte. Dopo un’ora ventuno colpi di cannone salutarono l’arrivo del re. Era proprio un gran giorno per Nelson, al quale il Borbone donò una preziosa spada definendolo più volte «nostro liberatore e conservatore». Mancava la regina, che non era in buone condizioni di salute dopo la morte di una figlia. Si era fatta rappresentare dalla principessa ereditaria, Maria Clementina.

Sceso a terra per raggiungere l’ambasciata, dove gli era stata preparata per la seconda volta la “stanza del principe”, il cielo fu oscurato dal volo di migliaia di uccelli liberati in suo onore tra le acclamazioni di una folla compatta. In prima linea ad acclamarlo c’erano i pescatori di Santa Lucia, fedelissimi alla corona e sempre pronti a mobilitarsi quando i sovrani avevano bisogno del sostegno popolare. E le manifestazioni di entusiasmo si sarebbero ripetute con la stessa intensità nei giorni successivi, durante tutti i suoi spostamenti per visitare la città o partecipare a ricevimenti. Ai festeggiamenti per la vittoria si aggiunsero, il 29 settembre, quelli per il suo quarantesimo compleanno, un omaggio particolare di lady Hamilton destinato a rimanere indelebile nella memoria dei partecipanti. Non si badò a spese per decorare i saloni dell’ambasciata, e la padrona di casa volle curare personalmente ogni dettaglio: agli invitati furono distribuiti nastri e distintivi con le iniziali H N (Horatio Nelson), sotto un baldacchino troneggiava una colonna rostrata col motto Veni, vidi, vici e l’inno nazionale Dio salvi il re si arricchì di qualche verso in onore del festeggiato, con la collaborazione di una giovane rappresentante della colonia inglese, Cornelia Knight.

Tutto sembrava scorrere meravigliosamente… Ma nel bel mezzo della cena, Josiah Nisbet, il figliastro di Nelson, presumibilmente brillo, si lanciò in un’invettiva contro il patrigno e lo accusava apertamente di intrattenere una colpevole relazione con Emily alle spalle di Fanny, sua madre. Un vento gelido percorse l’assemblea: gli invitati tossivano, distoglievano lo sguardo, facevano finta di non sentire. Non conosciamo quali pensieri si agitarono in quel momento nella mente dell’ambasciatore. Presumibilmente, aveva capito ciò che stava accadendo e fingeva di ignorarlo. In realtà, lord Hamilton era tutt’altro che uno sciocco. Verosimilmente, non era e non sarebbe stato mai un compiacente cornuto, e nemmeno uno sfortunato marito cieco e sordo. I sentimenti che provava erano molto più complessi di quanto si potesse immaginare.

L’ammirazione, anzi la venerazione, che sentiva per Nelson era immensa, l’affetto che provava per Emma altrettanto profondo. Era il 1798, e la sua salute in declino. Aveva sessantotto anni, sua moglie trentatré. Col tempo era diventato sufficientemente saggio e filosofo da permettersi di posare lo sguardo sul mondo in modo diverso. Da circa dodici anni, tutta la sua esistenza aveva avuto un unico scopo: rendere felice Emily. Era consapevole che non avrebbe potuto assolvere questo compito ancora per molto e gli veniva offerta un’alternativa: o reagire come un qualsiasi marito oltraggiato, urlando e gettando il guanto della sfida sul volto di Nelson, o decidere in piena coscienza di continuare, nonostante e contro tutto, a collaborare alla felicità di Emily. Adottò questa seconda soluzione e, fino alla morte, non avrebbe tenuto conto di chiacchiere e battute. Si sarebbe fatto consapevolmente carico della propria scelta, esattamente come quando aveva accolto l’ex venditrice di carbone mostrandosi in pubblico con lei davanti agli occhi di tutta la società napoletana. Questo modo di ragionare potrebbe sorprendere e turbare, ma è proprio solo di persone rare, e indiscutibilmente lord Hamilton era una di queste. Era anche evidente che non avrebbe ceduto la moglie a nessun altro uomo se non a Nelson: era la stima che provava per lui a permettergli di trasformare la sua pena in un’offerta.

Per tutti i ventitré giorni in cui rimase a Napoli, l’eroe non lasciò mai gli Hamilton: «Abito in casa loro – scrisse alla moglie l’1 ottobre –, e devo alle cure assidue che mi hanno prodigato se la mia salute si è ristabilita. Anche voi li amerete, come li amo io e come meritano di essere amati da tutti. Ripongo tutto il mio orgoglio nell’essere vostro marito, figlio del mio caro padre, amico di sir William e di sua moglie. Fintanto che vedrò queste persone soddisfatte di me, l’opinione della folla mi lascerà completamente indifferente», queste ultime parole alludevano senza dubbio alle chiacchiere che cominciavano già a circolare. La scenata fatta da Josiah non era passata inosservata: «Come potrei, mia cara Fanny, raccontarvi la metà degli onori che mi vengono tributati? Non basterebbe una risma di carta (…)».

Eppure dopo qualche giorno, tornata la calma, Nelson sprizzò veleno contro chi lo aveva osannato: «Questo è un paese di suonatori e di poeti, di puttane e di briganti», scrisse al comandante in capo delle forze inglesi nel Mediterraneo, l’ammiraglio John Jervis, lord St. Vincent, dopo aver attaccato con mano pesante tutta la corte, definita meschina e indolente. Era andato su tutte le furie quando, placatesi le celebrazioni, erano cominciati i contatti politici. Il suo obiettivo era quello di indurre il governo borbonico a giocare d’anticipo nei confronti dei francesi, ad abbandonare un attendismo che avrebbe procurato solo guai. Sosteneva che «le misure più coraggiose sono le più sicure», che era necessario attaccarli subito, in modo da scombussolare il loro piano d’invasione, già definito. E manifestava anche la certezza che, così facendo, sarebbero bastati tre mesi per liberare l’Italia dalla dominazione napoleonica. Ma le sue pressioni non avevano avuto successo, a tutti i livelli. Lo aveva deluso anche la regina che, pur condividendo il suo ragionamento, si era detta contraria a prendere una decisione così importante senza una preventiva intesa con l’imperatore austriaco, suo genero.

Era questa la situazione che rendeva nervoso l’eroe di Abukir, anche se i napoletani erano stati generosi con lui, tributandogli onori superiori alle aspettative. Per fortuna, c’era al suo fianco Emily Hamilton, sempre sorridente, sempre disponibile. L’ambasciatrice, che gli faceva anche da interprete, era la sua unica consolazione, mentre imprecava contro i napoletani che non si decidevano a dichiarare la guerra. Ma gli stava procurando anche qualche turbamento, come confessava candidamente all’ammiraglio Jervis, suo comandante: «Spero che scuserete lo stile slegato e confuso di questa lettera. Vi scrivo alla presenza di lady Hamilton, e Vostra Signoria, se fosse al mio posto, scriverebbe anche peggio! Quando il cuore è commosso, anche la mano trema! Napoli è decisamente un soggiorno pericoloso e faremmo bene a lasciarlo al più presto». Sia pure in termini ovattati, era probabilmente un primo segnale di cedimento di fronte alla provocante bellezza della connazionale, la quale però, onorando l’eroe venuto da Abukir, badava soprattutto, almeno per il momento, a consolidare i rapporti con la flotta.

Consapevole della miccia che aveva acceso, Emily continuava ad alimentarla, ma senza impegnarsi a fondo, certa che non si sarebbe spenta. E intanto tesseva altre trame e raccoglieva i frutti di operazioni già avviate, mentre blandiva i comandanti dei vascelli facendoli ricevere dalla regina, prodiga di elogi nei loro confronti.

A confermarle la crescita delle sue quotazioni intervenne una lettera dell’ammiraglio Jervis: «Mia cara lady Hamilton, dieci mila ringraziamenti son dovuti a V. S. per migliorare la salute del nostro inapprezzabile amico Nelson, dalla cui vita dipende il destino dei rimanenti governi d’Europa. Vi prego, non fate che le affascinatrici signore napoletane lo avvicinino troppo, perché egli è di carne e di sangue e non potrebbe resistere alle loro tentazioni. (…)».

L’invito, formulato in modo indiretto, “con eleganza”, sembrava destinato proprio a lei. Sembrerebbe che i vertici della marina avessero già valutato esattamente i complimenti che Nelson le rivolgeva, ed escludendo che fossero di pura cortesia, avrebbero voluto prevenire la tempesta che si stava scatenando nel suo cuore. Emily, probabilmente, con una punta di orgoglio, si esaltò nel sentirsi al centro dell’attenzione generale.

Lord St. Vincent, pertanto, nella seconda metà d’ottobre 1798, per evitare guai, decise di inviare Nelson a Malta, per osservare come si svolgevano le operazioni di assedio della guarnigione della Valletta. Era troppo tardi. Nelson ormai ammaliato, quasi stregato, partì, ma da lì a poco sarebbe ritornato a Napoli dove l’aspettava una più gradevole compagnia.

(10. – “Amy Lyon: una lady alla Corte di Napoli” 2013)

Roberta Mangano

Salvatore Musumeci